Etiopia, il peso degli scontri sulla popolazione: crimini di guerra e crisi umanitaria

Sono passate quasi due settimane dalla dichiarazione di guerra lanciata del primo ministro etiope Abiy Ahmed alla “clique” politica ed economica di una delle regioni che compongono la Repubblica Federale Etiope, il Tigray People’s Liberation Front (TPLF). Una dichiarazione a cui hanno fatto seguito azioni di cui si sa ancora poco a causa del blocco alle comunicazioni imposto dal governo federale nella Regione del Tigray, scenario di scontro. Un evento particolarmente traumatico per la storia del Paese, che interrompe bruscamente il percorso di pace e sviluppo dell’Etiopia e cosparge di dubbi ed incertezze il futuro. Come ci insegna la storia e ci viene confermato in questi giorni, gli impatti più gravi ricadono sulle tante persone che già vivevano condizioni precarie o di vulnerabilità cronica, a cui siamo soliti pensare per categorie (disoccupati, senza terra, disabili, malati, anziani, bambini), ma non dobbiamo mai dimenticare che sono tutti, univocamente, esseri umani.

La situazione in tutta la Regione è molto difficile. Oltre al blocco totale delle linee telefoniche e internet, manca l’elettricità, indispensabile per il funzionamento degli ospedali e di tutti gli esercizi commerciali. Manca il carburante, senza il quale i veicoli civili e di soccorso non riescono a muoversi, i generatori di elettricità alimentati a benzina non possono funzionare e così alcuni servizi fondamentali tra cui le pompe di estrazione e di circolazione dell’acqua. C’è un blocco quasi totale alla circolazione, non è possibile spostarsi tra le città e i paesi e quindi i generi alimentari cominciano a scarseggiare nelle città. La Regione è isolata, gli aiuti alimentari che quotidianamente venivano distribuiti in abbondanza, non riescono più a raggiungere la popolazione bisognosa. Tutte le banche sono chiuse, non c’è possibilità di prelevare denaro e quindi di far fronte anche all’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità.

Un operatore umanitario che venerdì mattina grazie a permessi speciali e al prezioso aiuto di amici locali è riuscito a lasciare la Regione via terra, racconta che fino ad allora a Mekelle non erano avvenuti combattimenti: solo qualche sparo nei dintorni della città mercoledì 4 e un aereo abbattuto domenica 8 novembre.

La situazione peggiore si registra nella zona occidentale della Regione. Un ufficiale dell’esercito federale ha dichiarato alla Reuters che 500 miliziani tigrini sarebbero stati uccisi negli scontri a Kirakir. Centinaia le perdite subite dalle truppe federali durante l’attacco condotto a Dansha, sempre nella zona ovest della Regione, come riportato da Al Jazeera. La controparte tigrina ha accusato l’esercito federale di aver condotto decine di bombardamenti aerei in aree densamente abitate di Mekelle.

Nella notte tra il 9 e il 10 novembre, centinaia di civili (si stima 500), per lo più lavoratori giornalieri di origine amhara, sono stati massacrati a colpi di coltello e machete da gruppi armati a Mai-Kadra, zona sud-ovest del Tigray. Diversi testimoni hanno incolpato forze leali al TPLF, tra cui la Polizia speciale del Tigray, per il massacro. Secondo le ricostruzioni di Amnesty International, durante il giorno precedente il TPLF e alcune milizie alleate avrebbero perso alcuni scontri in zone limitrofe, per mano dell’esercito federale e delle Forze speciali Amhara. Dopo gli scontri, queste ultime si sarebbero accampate per la notte in una zona periferica di Mai-Kadra e il giorno dopo, rientrando in città, avrebbero scoperto il massacro. Se questa ricostruzione verrà confermata, si tratterebbe di un primo, e probabilmente non ultimo, crimine di guerra.

Gli scontri hanno coinvolto anche la limitrofa Regione Amhara, nelle zone al confine con il Tigray. Venerdì 7 circa 100 persone sono state trattate per ferite da armi da fuoco nella città di Sanja e Gondar, e altre decine nei giorni seguenti.

Se gli scontri dovessero continuare anche nei prossimi giorni, le conseguenze sulla popolazione del Tigray, una regione prevalentemente agricola e molto povera, già duramente colpita dall’invasione delle locuste e dagli effetti del cambiamento climatico, sarebbero catastrofiche. Le Nazioni Unite hanno fatto un appello affinché le comunicazioni e le strade nella Regione vengano riaperte in modo tale da far arrivare almeno cibo e carburante. Oltre 600.000 persone in Tigray ricevono aiuti alimentari dalle Nazioni Unite, a cui si aggiungono le decine di migliaia di beneficiari di iniziative locali ed internazionali di assistenza alimentare ed umanitaria, che nella situazione attuale non operano. Il direttore di UN OCHA Ethiopia (l’ufficio di coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite), Sajjad Mohammad Sajid ha dichiarato che al momento 2 milioni di persone sono in una condizione “molto, molto difficile”. Tra questi, 100.000 rifugiati attualmente accolti nei campi gestiti dalle Nazioni Unite presenti in Tigray, e altri 100.000 sfollati interni: “anche la sicurezza fisica dei rifugiati è a rischio se il conflitto si espande” ha dichiarato un portavoce di UNHCR Ethiopia. Il rischio crisi umanitaria è ormai più che concreto.

Nei giorni scorsi non meno di 27.000 persone hanno lasciato il Tigray cercando riparo in Sudan. Civili fuggiti dai combattimenti o mossi dalla paura di essere coinvolti, decine di militari etiopi che hanno lasciato il campo di battaglia. Uomini e donne di tutte le età, il 50% bambini secondo la testimonianza di un ufficiale di UNHCR in Sudan raccolta da Reuters, alcuni di questi feriti, quasi tutti con pochissimi beni al seguito, senza cibo né acqua, in cammino da 2 o 3 giorni per sfuggire ai combattimenti. Secondo testimonianze raccolte dalla CNN, alcuni rifugiati hanno raccontato di aver subito bombardamenti da parte del governo federale, di aver assistito a combattimenti in strada e uccisioni di civili a colpi di machete.

Il concentramento delle forze armate federali negli scontri col Tigray sta riaccendendo tensioni interne al Paese. In diverse aree periferiche del Paese sono attivi focolai di tensioni locali che hanno natura varia: competizione per l’accesso a risorse, amministrazione della terra, differenze etniche, irredentismi, sovversione all’autorità. Queste tensioni, spesso sedate tramite il dispiegamento di militari, si stanno riacutizzando in questi giorni proprio a causa del massiccio trasferimento di militari verso il fronte tigrino. Sabato 15 novembre, 34 civili che si trovavano a bordo di un bus in un’area remota tra Wonbera e Chagni, in Benishangul-Gumuz, sono stati uccisi da un gruppo di uomini armati in un attacco che non sembra avere collegamenti diretti con la guerra in Tigray. Lunedì 16 la testata giornalistica Addis Standard ha ricevuto informazioni relative a diversi attacchi avvenuti nel weekend in almeno 5 villaggi della zona Konso, nella Southern Nations, Nationalities and People’s Region, per mano di gruppi armati non meglio specificati: le testimonianze raccolte parlano di molte vittime e di villaggi dati alle fiamme. Entrambe le zone erano state smilitarizzate pochi giorni prima degli attacchi.

Il conflitto si espande. Secondo quanto riferito dal presidente del Tigray Debretsion Gebremedhin, le forze tigrine starebbero combattendo da giorni contro 16 divisioni dell’armata eritrea, nel confine nord della Regione. Nonostante le smentite del governo etiope, la notizia sarebbe confermata da diverse testimonianze raccolte ad Humera: con l’alleanza tra Isaias e Abiy il Tigray si trova praticamente accerchiato. Sabato 14, le forze armate tigrine hanno bombardato la capitale eritrea Asmara.

Sempre nel weekend i tigrini hanno lanciato missili contro gli aeroporti di due grandi città della Regione etiope Amhara (che confina a nord con il Tigray): Gondar e Bahir Dar. Interrogato sulla possibilità di un attacco diretto alla capitale etiope Addis Abeba, Debretsion non ha smentito: “Non voglio dirtelo, ma abbiamo missili a lungo raggio” in grado, si sottintenda, di coprire gli oltre 800km che separano Mekelle da Addis Abeba.

La possibilità che il conflitto si espanda ulteriormente e faccia piombare l’Etiopia nel caos spaventa molto la comunità internazionale. Negli ultimi anni il Paese ha assunto un ruolo chiave nel difficile processo di stabilizzazione e pacificazione del Corno d’Africa, che rischia di saltare, portandosi dietro Paesi già fortemente instabili quali Somalia, Eritrea e Sud Sudan.

L’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell ha espresso preoccupazione per l’“integrità del Paese e la stabilità dell’intera regione” del Corno d’Africa se la situazione attuale dovesse perdurare.

A riprova della rilevanza internazionale dello scontro in atto, tanti leader africani si sono mossi di persona per incontrare gli alti vertici etiopi e promuovere la cessazione delle ostilità e il dialogo: il Presidente dell’Uganda Museveni e l’ex Presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, il Presidente kenyano Kenyatta e il governo del Sudan.

Queste si sommano alle dichiarazioni del Presidente dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat e del Segretario generale dell’ONU António Guterres, che hanno chiesto un immediato cessate il fuoco per la stabilità dell’Etiopia e del Corno d’Africa, il rispetto dei diritti umani e la protezione dei civili.

In una lettera inviata al Presidente del Sudafrica e al Presidente dell’Unione Africana, il 9 novembre il governatore del Tigray Debretsion Gebremichael ha aperto al dialogo affermando che “i problemi politici non possono essere risolti per vie militari” e chiedendo alle autorità internazionali di fare pressioni affinché il governo federale cessi le azioni militari nella Regione.

In risposta, Abiy ha più volte ribadito la legittimità delle azioni portate avanti, definite “law enforcement operations” di uno stato sovrano nei confronti di un’autorità subordinata e illegale, volte a portare pace e stabilità per tutto il popolo etiope e una volta per tutte. Secondo il governo federale i negoziati di pace saranno possibili solo quando tutti gli armamenti tigrini saranno distrutti, i funzionari federali saranno rilasciati e i leader della Regione arrestati. Le preoccupazioni della comunità internazionale sono dunque considerate “infondate” e dovute ad una mancata “conoscenza approfondita” del “nostro contesto”. “Non avremo pace finché questa giunta non sarà consegnata alla giustizia”.

Le autorità tigrine – formalmente deposte e sostituite da un governo di transizione istituito dal Parlamento di Addis – hanno chiamato tutta la popolazione alle armi e a difendersi dall’aggressione del governo federale.

Poche ore fa il Presidente Abiy ha annunciato che i 3 giorni concessi per la resa delle forze militari tigrine in disaccordo col TPLF sono terminati, e che di conseguenza stanno per iniziare le azioni decisive.

 

Marcello Poli – 17 novembre 2020