Mozambico

La provincia di Cabo Delgado tra debolezze strutturali, risorse naturali e attacchi jihadisti

Il Mozambico è diventato negli ultimi anni un paese strategico per le ingenti riserve di gas naturale. Si posiziona tra gli stati africani come il terzo maggiore detentore in termini di riserve di gas naturale con 2.800 mld di metri cubi (Gmc) dopo Nigeria (5.400 Gmc) e Algeria (4.300 Gmc). La posizione geografica del paese che garantisce l’apertura verso l’Europa attraverso il canale di Suez e verso i mercati asiatici attraverso l’Oceano indiano lo configurano oggi come uno stato potenzialmente capace di imporsi come esportatore di gas naturale liquido a livello globale.

Attualmente l’italiana ENI e la francese Total Energies sono i principali investitori nell’area del bacino offshore di Rovuma e il progetto Mozambique LNG costituisce quello di maggiore interesse per il consorzio capofilato da Total e di cui è parte anche l’italiana Saipem che ambisce a trasportare il gas estratto nell’Afungi LNG Park, tra i maggiori terminal di GNL al mondo con una capacità di processamento pari a 43 milioni di tonnellate annue.

L’Afungi LNG Park sarebbe dovuto diventare operativo nel 2024 ma la realizzazione del progetto, ripartito a luglio 2023, era stata sospesa nel 2021 a causa degli attacchi di gruppi di insorti di matrice ‘islamista’ nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, che ad oggi hanno causato dal 2017 oltre 5 mila vittime e un milione di sfollati. L’italiana Eni è attiva nell’area con il progetto offshore Coral South FLNG, un terminal di liquefazione galleggiante, infrastruttura che possiede una capacità di 3,4 milioni di tonnellate all’anno (circa 5 Gmc) e produrrà gnl dalle riserve di Coral, pari a 450 Gmc . Eni ha quindi contribuito a trasformare il Mozambico in paese esportatore di gas liquefatto sui mercati internazionali, unica compagnia energetica a poter rispettare i tempi in quanto operante esclusivamente offshore e quindi difficile obiettivo di destabilizzanti attentati terroristici (F. Indeo “Tra gas naturale e rinnovabili: il ruolo del Mozambico nello scenario energetico contemporaneo” ISPI Focus Sicurezza energetica n.7). Eni è soprattutto la principale leader del preziosissimo Rovuma LNG, che con un valore stimato di oltre 30 miliardi di dollari, prevede la realizzazione di un impianto su terraferma per il processamento e l’export del gas proveniente da 24 pozzi sottomarini. Si stima che almeno 15 milioni di tonnellate di gas l’anno possano essere processati per essere esportati verso i mercati europei, orfani dei combustibili fossili forniti dalla Russia.

Sappiamo come attualmente il grosso del gas estratto dai giacimenti presenti nel paese sia destinato all’esportazione ma sappiamo anche che secondo le previsioni dell’International Energy Agency, la domanda energetica nel paese è destinata a quadruplicare entro il 2040 (14 International Energy Agency (Iea), Mozambique Energy Outlook, 2019) e di conseguenza l’idroelettrico, principale fonte energetica del paese, non sarà più sufficiente. Attualmente a causa di diversi fattori, tra cui la bassa densità abitativa e una rete di distribuzione energetica poco sviluppata, l’accesso all’energia è particolarmente costoso. Una delle opzioni che presenta ottime prospettive è legata alla creazione di centrali solari e alla produzione di energia pulita. La centrale di Mocuba avviata nel 2017 riesce a sopperire al fabbisogno energetico di 170 mila nuclei famigliari e quella di Metoro, avviata recentemente, dovrebbe poter produrre altrettanta energia pulita anche se essendo ubicata nella provincia settentrionale di Cabo Delgado rischia di interrompere la produzione di energia se la situazione di instabilità dovuta alla presenza di jihadisti dovesse mettere a repentaglio la sicurezza delle infrastrutture.

Sicuramente la disponibilità di riserve di gas naturale e il grande potenziale spendibile dal paese nella produzione di energie rinnovabili potrebbe portare il Mozambico a diventare un supplier energetico mondiale. Tuttavia, il problema della stabilità nelle province settentrionali rimane un’incognita importante, che potrebbe condizionare lo sviluppo di progetti e la sicurezza delle infrastrutture energetiche.

Alla base della mobilitazione armata che da anni interessa il nord del Mozambico, ci sono sempre state istanze locali di carattere sociale, economico e politico strutturali, che hanno contribuito, negli anni, a fare del nord del Mozambico un’area fortemente sensibile alla penetrazione del jihadismo globale. La provincia di Cabo Delgado vive una condizione di marginalità economica e sociale di antica origine che ha sempre generato contestazioni sociali nei confronti delle autorità politiche nazionali e locali accusate di corruzione e malgoverno. Sicuramente la scoperta delle ingenti risorse energetiche e minerarie nella regione (gas e rubini) ha avuto un peso sull’aumento delle frustrazioni da parte della popolazione, legate a un sentimento di esclusione dalla promessa di un grande sviluppo economico. In più la popolazione ha iniziato a temere espropriazioni coatte di terre con importanti ripercussioni sulle attività produttive.

Questo è il motivo per cui tanti giovani mozambicani si sono uniti al gruppo di giovani salafiti formatisi tra Arabia Saudita, Egitto e Sudan e conosciuti come “al-Shabaab” che dal 2007 ha avuto l’obiettivo di istituzionalizzare la sharia e costituire uno stato islamico in Mozambico. Il gruppo che inizialmente è riuscito a strumentalizzare il malcontento della popolazione ha foraggiato la contestazione prima nei confronti delle autorità religiose locali e poi di quelle politiche sempre in forma pacifica, subendo importanti repressioni da parte delle autorità governative. Il tentativo è stato quello per anni di costruire un progetto di “contro-società” islamica, imponendo leggi islamiche e servizi che rispondevano ai dettami della sharia e soppiantavano di fatto quelli offerti dallo stato.

L’attività del gruppo che nei primi anni si configurava più come di predicazione e proselitismo si trasforma nel 2017 in un’attività di jihadismo armato a cui il Governo ha risposto via via più duramente coinvolgendo in alcuni casi anche gruppi mercenari paramilitari (dalle tristemente famose truppe Wagner russe alle unità del Dyck Advisory Group (DAG) sudafricano). Per contro il susseguirsi di atti violenti si è accompagnata spesso, come confermano fonti locali, alla distribuzione di cibo e generi di prima necessità con l’obiettivo di guadagnare consenso sociale e screditare il partito Frelimo. Nell’ultimo periodo si sono registrati meno episodi violenti con un minore numero di morti stante quanto ci riporta l’Osservatorio Cabo Ligado. Il 14 settembre scorso si è verificato un nuovo attacco ai danni di un piccolo villaggio nell’area di Mocimboa da Praia con l’uccisione di 11 persone. In generale è pericoloso associare il termine ‘terrorismo’ alla jihad armata in Africa Subsahariana perchè come ci dimostrano i fatti le insurrezioni a Cabo Delgado hanno un forte legame con la marginalizzazione economica e sociale della Provincia, con le frustrazioni di una popolazione giovane e senza speranza di migliorare la propria condizione e con il senso di abbandono verso una classe politica corrotta e abusante.

Le domande che naturalmente ci poniamo sono: l’incremento di attacchi verso i civili a cui abbiamo assistito negli ultimi anni è legato al tema delle risorse minerarie e naturali rinvenute proprio in quelle aree? Gli attacchi registrati in questi anni a Cabo Delgado operati da falangi armate identificatesi come di matrice islamico jihadista possono essere letti come parte di una strategia globale portata avanti dallo Stato Islamico?

Sicuramente la lente con cui si guardano questi fenomeni deve provare a tenere insieme la dimensione globale e quella locale, tenendo presente che la nascita e la crescita di questi gruppi armati ha uno stretto legame con l’insoddisfazione e la frustrazione di quelle comunità periferiche e marginalizzate dal punto di vista socio economico di cui si parlava. Si tratta di gruppi fortemente ancorati al territorio che portano avanti rivendicazioni strettamente legate a dinamiche e fattori politici locali.

Quella a Cabo Delgado è una situazione complessa che tocca molteplici aspetti e chi ha pagato e continua a pagare più duramente lo scotto degli attacchi jihadisti ad alcune comunità e villaggi e del conflitto armato tra i gruppi armati e le forze di sicurezza dello Stato sono proprio i civili. Migliaia di sfollati interni esposti a continue violazioni dei diritti umani più basilari, che vorrebbero tornare alle proprie abitazioni e nei propri villaggi di origine ma che non hanno accesso ad informazioni sulla sicurezza di questi luoghi o su come spostarsi in luoghi più sicuri.

Consapevoli che finora il sostegno internazionale è stato orientato al rafforzamento degli aspetti militari più che alla promozione di una politica volta a sostenere uno sviluppo inclusivo e al miglioramento della governance, come ong impegnata attraverso progetti di cooperazione internazionale a Cabo Delgado, riteniamo fondamentale lavorare insieme ai nostri partner mozambicani per contribuire alla ricostruzione del tessuto socio economico del paese.

Restare accanto alle comunità, promuovere il rispetto dei diritti della persona e di lavoratori e lavoratrici insieme al sindacato locale, portare avanti, insieme alla società civile organizzata mozambicana e alle università di Cabo Delgado progetti che promuovono un dialogo di pace e che mettono al centro lo sviluppo inclusivo e sostenibile delle comunità ci permette di scegliere ancora una volta di stare dalla parte delle vittime, quelle escluse dai grandi giochi di potere, quelle che spesso non hanno nè voce nè nome, quelle i cui diritti vengono calpestati ogni giorno, quelle che diventano solo numeri quando si stilano rapporti.

Sarah Alessandroni,  7/11/2023