Crisi umanitaria a Cabo Delgado: ripensare a un modello sostenibile di crescita attraverso la creazione di lavoro
Nella Provincia di Cabo Delgado si sta verificando una crisi umanitaria tanto grande quanto poco conosciuta a livello mediatico. La scoperta di risorse primarie e preziose ha presto attirato grandi capitali stranieri per l’approvvigionamento, senza che però questo sviluppo industriale venga recepito e integrato nel tessuto socio-economico locale.
Perché Cabo Delgado è una zona di interesse strategico Nel corso degli ultimi dieci anni la Provincia ha registrato un aumento degli investimenti diretti esteri che ha oltrepassato i 600 milioni di dollari nel 2014 (https://omrmz.org/omrweb/wp-content/uploads/DR-63-actualizado.pdf). In effetti, Cabo Delgado è divenuta una zona di forte interesse per diversi attori, sia locali che internazionali, grazie alla presenza di importanti risorse naturali e preziose tra cui marmo, avorio, pietre preziose e gas naturale. La strategia del governo nazionale, che incentiva un modello economico estrattivo e orientato alle esportazioni, ha presto concesso l’uso della terra alle grandi compagnie che manifestavano interesse.
Tra i principali investitori troviamo la compagnia francese Total, quella americana Anadarko Petroleum Corporation e l’italiana Eni, che è presente nel Paese dal 2006. Oltre a queste tre principali, sono presenti anche altri investitori extraeuropei, come la Cina, il Brasile, l’India, il Giappone e l’Australia (https://www.dw.com/en/gas-investors-in-mozambique-choose-appeasement-in-face-of-islamist-violence/a-54156451). Attualmente, la maggior parte delle compagnie si trova ancora in una fase di studio ed esplorazione. Tra il 2011 e il 2012 l’Eni e la Anadarko hanno compiuto la più grande scoperta: un giacimento di 7000 miliardi di metri cubici di gas vicino la costa settentrionale della Provincia, che sarebbe il quarto più grande progetto offshore di gas (https://downtoearthmagazine.nl/the-curse-of-natural-gas-in-mozambique/). I progetti prevedono anche la costruzione di nuove vie di transito, come porti e aeroporti, sia per l’arrivo del personale straniero, sia per il trasporto della materia prima estratta.
Lo stanziamento di queste grandi risorse e i piani di sviluppo legati all’implementazione delle industrie hanno, dunque, alimentato grandi aspettative di impiego e di guadagno nella popolazione locale.
Le prime criticità La regione di Cabo Delgado e quella di Niassa, che insieme formano l’area settentrionale del Mozambico, registrano il tasso di analfabetismo più alto del Paese. Inoltre, proprio le zone di maggior penetrazione degli investimenti sono quelle con maggiori criticità per ciò che riguarda i tassi di povertà. Esistono forti privazioni anche in campo sanitario e di accesso ai beni principali, come l’energia elettrica, l’acqua e l’accesso ad abitazioni dignitose. Ciò provoca una forte discrepanza fra aspettative di creazione di impiego nella fiorente industria estrattiva e realtà. La manodopera richiesta per l’industria e i servizi è specializzata, dunque non può essere reperita a livello locale, dato che spesso chi conclude gli studi arriva a un livello medio di scolarizzazione e non ha la possibilità di accedere a corsi di studio maggiormente professionalizzanti. Inoltre, alcuni studi hanno verificato la presenza di solo 7 strutture per l’insegnamento tecnico professionale in tutta la Provincia, per una popolazione attiva (15 – 30 anni) di circa 559.000 persone. Di fatto, la disoccupazione giovanile si traduce in una spinta migratoria rurale-urbana, aumentando le pressioni nelle infrastrutture e consolidando un modello economico duale e parallelo fra lavoro formale e informale.
Così come è accaduto in precedenza nella Provincia di Tete, nota per i giacimenti di carbone, le conseguenze degli investimenti stranieri hanno provocato un impatto negativo sulla popolazione locale, non preparata ad accogliere un modello economico di questo tipo. Tra le conseguenze più comuni c’è la perdita di terra, che un tempo apparteneva alla popolazione locale e veniva sfruttata per le proprie attività economiche e sociali. In particolare, questo ha riguardato la zona costiera del Nord, dove erano presenti popolazioni di pescatori locali costretti ad abbandonare le proprie terre e a rinunciare alla loro principale fonte di guadagno.Secondo l’Observatorio do Meio Rural, l’indennizzo ricevuto dalle famiglie è stato di 5.000 meticais a mese, contro il range di 10.000-40.000 meticais che un pescatore riusciva a guadagnare in venti giorni con il proprio lavoro. Si stima che circa 2.500 famiglie sono o verranno spostate dai loro luoghi di origine.
La situazione peggiora Un escalation di eventi e tensioni sociali ha contribuito al rallentamento dell’inizio della fase di estrazione del gas. Nel 2019 il Mozambico è stato colpito da ben due cicloni nel giro di pochi mesi. Uno di questi, conosciuto come ciclone Kenneth, si è abbattuto proprio nella Provincia di Cabo Delgado distruggendo interi villaggi. A ciò si è aggiunto il fenomeno del terrorismo, che non ha fatto fatica a insediarsi in una tale situazione di povertà e frustrazione.
Sebbene gli attacchi da parte di bande armate, conosciuti come Al-Shabab (gioventù) siano cominciati nel 2017, è solo a partire dal 2020 che si è verificata un’intensificazione della violenza (circa 195 episodi secondo un report OCHA del 2020): sono stati occupati quattro municipi fra cui Mocímboa da Praia, Macomia, Muidumbe e Quissanga per poi raggiungere sia il sud della regione (Metuge) che le zone più interne (Nangade e Mueda). Gli attacchi, inoltre, sono diventati sempre più strutturati e organizzati, ampliando anche gli obiettivi, tra cui edifici simbolo dello Stato e basi militari. Spesso i terroristi indossano le uniformi dell’esercito mozambicano e possiedono di volta in volta armi più sofisticate. La destabilizzazione dell’area ha raggiunto infatti il suo culmine con l’occupazione di due ampie e popolose zone della provincia, mentre in un primo momento si trattava solo di episodi circoscritti ad alcuni villaggi.
Chi sono i terroristi Sempre più spesso si parla di terrorismo di matrice islamica (https://www.africarivista.it/mozambico-gli-altri-al-shabaab/159437/), dal momento che la crescente strutturazione e organizzazione degli attacchi in Mozambico fa pensare a un finanziamento da parte di altri gruppi jihadisti provenienti dall’area centroafricana, in particolare Somalia, Kenya e Uganda. Alcuni degli attacchi sono stati inoltre rivendicati direttamente dallo Stato Islamico. Come evidenziano alcuni studi (https://omrmz.org/omrweb/publicacoes/or-93/), la percezione di esclusione e privazione viene recepita in modo particolare dalla popolazione musulmana presente a Cabo Delgado. Questa si identifica sempre di più con un sentimento di frustrazione e opposizione verso lo Stato, che difende gli interessi economici a discapito di alcuni gruppi della società, portando a un aumento delle adesioni a movimenti con discorsi fortemente identitari e populisti. Quello che succede in Mozambico quindi, viene paragonato alla strategia di Boko Haram in Nigeria: un gruppo emarginato prende le armi contro il governo sfruttando il malcontento, in particolare quello dei giovani disoccupati. Questi sono spinti anche dalle necessità economiche dato che spesso questi gruppi promettono denaro a chi decide di arruolarsi.
Quali siano gli attori coinvolti nel contrasto o appoggio ai terroristi a livello internazionale, rimane per molti osservatori “oscuro” (https://www.internazionale.it/notizie/2020/04/10/mozambico-azioni-jihadisti). Esistono forti interessi per il controllo delle risorse e in particolare per il controllo delle rotte su cui si muovo i traffici illeciti. Se gli unici finanziatori dei gruppi di ribelli siano i jihadisti rimane ad oggi un tema fortemente dibattuto.
Verso la crisi umanitaria Circa 250.000 persone si trovano sfollate dopo essere fuggite dai propri villaggi per scampare agli episodi di violenza e terrorismo (https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/Mozambique%20-%20Cabo%20Delgado%20-%20Humanitarian%20Snapshot%2C%20July%202020.pdf).
Un numero sempre maggiore di persone ha perso la propria casa, vivendo in abitazioni di parenti o in alloggi insicuri e temporanei. Le organizzazioni umanitarie presenti cercano di fornire i beni di prima necessità, ma questi scarseggiano sempre di più di fronte all’aumento degli sfollati. La mancanza di un numero appropriato di sanitari nei luoghi di accoglienza porta all’aumento di casi di colera, che si aggirano intorno ai 1.203. Con la pandemia globale, che non ha risparmiato il Mozambico, la situazione si fa ancora più drammatica: impossibile mantenere il distanziamento sociale, specie durante la distribuzione degli alimenti, come ha evidenziato Manuel Nota della Caritas Diocesiana di Pemba. In Mozambico vi sono circa 1.500 casi confermati di coronavirus, la maggior parte dei quali proprio nella Provincia di Cabo Delgado.
Tra gli altri problemi segnalati vi sono l’insicurezza alimentare, dato che 310.000 persone non hanno accesso agli alimenti di base. Circa 54.000 bambini inoltre soffrono di malnutrizione.
Creazione di meccanismi di integrazione socioeconomica come via d’uscita Le organizzazioni locali chiedono maggiore impegno nella creazione di meccanismi di reintegrazione socioeconomica delle famiglie, attraverso creazione di impiego e autoproduzione alimentare.
Oltre agli aiuti e alla distribuzione di beni di prima necessità, che possono essere utili per far fronte all’emergenza, serve infatti un cambiamento strutturale che permetta alle famiglie di emanciparsi ed essere così integrate nel sistema socioeconomico. È necessario consolidare un modello economico sostenibile nel lungo periodo, ma anche offrire delle alternative di vita ai giovani.
La frustrazione e la mancanza di lavoro, associate alla bassa formazione e scolarizzazione, aumentano la probabilità che i giovani vengano cooptati dalle bande armate. Secondo i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie, a poco serve l’azione di sensibilizzazione per evitare un simile fenomeno. Sempre più giovani, infatti, entrano nei gruppi armati o iniziano attività economiche illecite (contrabbando di pietre preziose, per esempio) non avendo altre prospettive economiche di lungo termine e dovendo affrontare quotidianamente sfide per la loro stessa sopravvivenza.
Molti enti locali richiedono quindi fondi e investimenti per l’aumento e promozione della formazione professionale che permetta ai ragazzi di acquisire delle competenze per creare delle proprie attività. Attraverso l’autoimpiego e la costruzione di incubatrici di impresa si può quindi dare un’alternativa al “guadagno facile” e spesso pericoloso che deriva dalle attività clandestine. Nelle zone rurali in particolare, dove l’istruzione si ferma alla settima classe, i ragazzi vengono considerati già formati. Tuttavia sono proprio queste le zone con i più alti tassi di analfabetismo. Attività lavorative per la produzione alimentare, quindi, potrebbero servire a un duplice obiettivo: creare posti di lavoro e contribuire all’autosostentamento delle famiglie per non dipendere più dagli aiuti esterni.
Chiara Spatafora – 29 Luglio 2020