Quanto vale una rosa?

La riorganizzazione del capitalismo avvenuta dopo gli anni Ottanta, e nata dall’esigenza di una maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro e nei processi di produzione, dà avvio ad una crescente personalizzazione dei consumi e a una progressiva apertura dei mercati alla dimensione internazionale. Dal punto di vista sociale ed economico questa nuova era si fonda sul passaggio dalla centralità del lavoro a quella del consumo laddove è proprio il consumo che determina le dinamiche del riconoscimento sociale. La politica definisce al contempo le condizioni, all’interno e all’esterno delle singole nazioni, per la nascita del mercato globale. Tutto questo accade in un panorama globale di stagnazione salariale, riduzione del tasso di sindacalizzazione e aumento generale dei consumi. In questo nuovo quadro le principali opportunità di profitto si sono concentrate nei mercati globali, in modo particolare in quelli finanziari. Di conseguenza la globalizzazione, che si configura come un importante fenomeno economico del nostro tempo, ha accentuato la polarizzazione tra ricchi e poveri ponendo in modo drammatico la questione dei diritti nel rapporto tra gli esclusi e gli inclusi in questi processi produttivi e di consumo di carattere globale e nella possibilità di accedervi. Ha inciso fortemente sulle migrazioni, determinando lo spostamento di uomini decisi ad abbandonare sistemi socialmente ed economicamente più poveri alla ricerca di migliori condizioni di vita per sé e per le famiglie. Ed è del tutto evidente che l’impatto che la globalizzazione ha avuto sul mercato del lavoro in questi anni ha provocato grossi mutamenti, laddove le politiche attuate per cercare di governarla sono state definite tutte a livello di governi nazionali e sono andate nella direzione di rendere il più possibile flessibile il lavoro. Flessibilità che spesso si è tradotta in precarietà.

In Europa ad esempio ogni Stato ha optato per strategie personalizzate. La globalizzazione ha avviato processi di cambiamento su vasta scala producendo una crescente interdipendenza nelle relazioni economiche tra Stati diversi (commercio, investimenti, finanza, organizzazione nella produzione globale) e di conseguenza nell’interazione sociale e politica tra organizzazioni sindacali e individui di Stati diversi. Questo sancisce il fatto che noi tutti siamo parte di una comunità globale molto più ampia di quella a cui eravamo abituati a pensare prima che questa trasformazione del mercato e dei consumi avesse inizio. L’economia globale subisce delle trasformazioni, così come cambiano le dinamiche che regolano l’occupazione: alcune attività tradizionali dei paesi definiti più sviluppati non sono più competitive proprio perché si confrontano con mercati globali e con economie dove il costo del lavoro è molto basso, l’imposizione fiscale e contributiva è limitata, la regolamentazione burocratica e amministrativa è semplificata. Sempre più spesso risulta maggiormente conveniente importare da paesi emergenti un’ampia gamma di prodotti di consumo a media o bassa tecnologia anziché produrli nel proprio paese. E questo processo si è spinto talmente avanti che oggi possiamo delocalizzare la produzione di qualsiasi cosa, anche dei prodotti più freschi, quelli che deperiscono molto rapidamente, che hanno vita breve per loro natura, come i fiori recisi.

Questa è una storia che inizia da molto lontano e che descrive bene il tipo di relazione economica che lega continenti molto distanti per storia e crescita economica come l’Europa e l’Africa. Protagonisti di questa storia sono i fiori e in particolare uno: la rosa. Quasi nessuno sa che le rose vendute dai fiorai per la festa di san Valentino arrivano tutte dall’estero. L’Italia esporta fiori per 147 milioni di euro, ma acquista rose dall’Olanda per circa 352 milioni di euro l’anno. Ma chi compra questi fiori? In gran parte grossisti ed esportatori che li rivendono ad altri grossisti o ai dettaglianti. L’incremento di prezzo è di circa il 15% per ogni passaggio. Transitando per le aste olandesi, i fiori perdono completamente la loro identità, per cui alla fine non si sa né il nome varietale (se presente), né il luogo di produzione, né se il fiore sia dotato di una qualsiasi certificazione che garantisce il rispetto di alcuni standard internazionali importanti come l’assenza di sfruttamento dei lavoratori per la loro produzione. Tutto deve essere fatto in fretta, poiché i fiori perdono 1/5 del loro valore ogni giorno che passa. Per avere un’idea, ad esempio la mimosa è il fiore che in assoluto acquista e perde valore più rapidamente, in occasione della festa della donna. Viene raccolta ai primi di febbraio e rimane in cella fino a marzo. L’Italia con i suoi distretti florovivaistici di Sanremo e Pescia è stata una realtà concorrenziale sul mercato europeo e internazionale fino ad una decina d’anni fa, quando ha iniziato a subire la fortissima concorrenza di paesi come il Kenya, la Colombia l’Ecuador e l’Etiopia. I nostri mercati dei fiori, infatti, sono diventati centri di distribuzione di piante importate dai mercati stranieri con un crollo della produzione su base nazionale, così come delle nostre esportazioni. Le piccole imprese italiane si sono riconvertite concentrandosi su settori di nicchia talvolta provando a costituire consorzi per superare il «nanismo». Oggi chi gestisce un’azienda floricola in Italia conosce benissimo i flussi globali e la provenienza dei fiori.

Il caso africano, relativamente alla produzione di rose, è piuttosto recente. Una ventina d’anni fa in Kenya (nella zona di Naivasha, a 150 km a nord di Nairobi) così come in Etiopia (sull’altopiano intorno alla capitale Addis Abeba) si sono installate delle multinazionali che hanno iniziato una produzione intensiva di rose per poter sfruttare le risorse umane, ecologiche ed ambientali favorevoli, cioè un clima caldo che permettesse di evitare di riscaldare artificialmente le serre di produzione, l’acqua di laghi o fiumi con cui poter irrigare le piante ed una manodopera a costi bassissimi. Un operaio etiope viene pagato al mese circa 1.600 birr ovvero circa 50 euro. Le condizioni di lavoro degli operai sono estremamente dure: il lavoro è molto faticoso, i contratti sono raramente a tempo indeterminato e con bassissime tutele. Spesso nei periodi di maggiore richiesta si assumono lavoratori esterni, con contratti assimilabili al cottimo, pagati pochissimo per un lavoro massacrante. Ognuno si deve occupare di una fila di rose, che può essere incredibilmente lunga, dato che le serre si estendono per molte decine di ettari. La posizione è scomoda, poiché si deve stare incurvati tutto il giorno. A lavorare sono soprattutto le donne, che vengono licenziate in tronco se in gravidanza, e che spesso devono subire abusi sessuali. I codici internazionali per la protezione degli operai prevedono che essi debbano rientrare dopo un certo numero di ore dopo l’erogazione degli insetticidi, ma nessuno rispetta queste regole, e la maggior parte dei lavoratori ha malattie alle vie respiratorie, per le cui cure non riceve nessun contributo. Tante donne subiscono aborti spontanei ripetuti proprio perché a contatto con sostanze tossiche o contraggono malattie della pelle. Una delle multinazionali più importanti del mondo, forse la più potente, è la Sher Agencies, che in Kenya e in Etiopia ha due delle sedi più importanti, benché la proprietà sia olandese. La tecnologia, il know-how e le strategie di marketing sono in Olanda, la produzione in Africa. Metà dei fiori prodotti, quelli con il gambo più lungo, viene portata alle aste olandesi per essere rivenduta, il resto viene distribuito in tutto il mondo. Il trasporto aereo è in assoluto la spesa più gravosa: spedire le rose costa 2 euro al chilo. Anche se le rose valgono di più in misura di quanto sono lunghe, quelle africane vengono accorciate per poterne impacchettare molte in una sola scatola. In un solo volo possono essere inviati fino a 6 milioni di fiori. Nessuno calcola l’impatto ambientale del carburante necessario per portare i fiori da questi paesi all’Europa. Ogni varietà ha uno stadio ben preciso in cui essere raccolta. Dopo il taglio le rose vengono raffreddate per quattro ore a 4°C, vengono poi riunite in mazzi e di nuovo poste in frigorifero. Le celle frigorifere sono tenute alla temperatura costante di 6°C, e molti operai lavorano esclusivamente lì per tutto il giorno, tutti i giorni, e devono vestire abiti pesanti. I fiori vengono portati in aeroporto di notte, per evitare che si sciupino al calore cocente delle ore diurne, e circa otto ore dopo sbarcano ad Aalsmeer, in Olanda, non lontano da Amsterdam.

Le aste olandesi sono quattro, ma questa è la più importante ed insieme a quella di Flora Holland controlla il 98% del mercato dei fiori da taglio. Il 70% dei fiori da taglio importati dal resto del mondo e la quasi totalità di quelli prodotti in Olanda passa di qui. Il 65% di quelli prodotti in Africa finisce ad Aalsmeer. L’edificio che ospita l’asta è l’area commerciale più grande del mondo. La zona riservata all’asta delle rose è la più grande. Si entra la mattina prestissimo, alle 7, ma l’asta inizia più tardi, alle 10, e si svolge con una rapidità impressionante. Il tutto dura un’ora: a mezzogiorno il luogo è deserto. Si contano fino a 12 transazioni al secondo. Per questi paesi africani oggi la produzione di rose e in generale l’industria floricola ha avuto un grosso impatto sia in termini di occupazione che in termini di Pil. Il caso etiope è uno dei più eclatanti: oggi la floricoltura è uno dei settori trainanti dello sviluppo economico del paese anche se storicamente l’Etiopia non è un paese produttore di fiori. Questo settore in rapidissima espansione in poco più di 10 anni ha essenzialmente trasformato l’economia del paese, arrivando ad interessare circa il 10% del Pil nazionale. Per queste ragioni il governo mantiene una politica di promozione attiva degli investimenti nel settore floricolo, al fine di attrarre quanto più possibile capitali stranieri. Per tutte le motivazioni fin qui descritte non risulta difficile comprendere come acquistando oggi un fiore in Europa per celebrare una qualsiasi ricorrenza rischiamo di contribuire nostro malgrado allo sfruttamento di tante donne che sono impiegate giornalmente nella loro produzione in paesi dove i diritti dei lavoratori non vengono rispettati. Ma se ci domandiamo come fare per evitare questo, la risposta non è certo smettere di acquistare i fiori: il settore della floricoltura infatti rappresenta una fonte di entrate sostanziale per le economie dei paesi emergenti, e una grande opportunità per il loro sviluppo e per la creazione di posti di lavoro. Esistono, però, forme di tutela che il consumatore europeo può adottare per ridurre l’impatto negativo della domanda. Ad esempio possiamo acquistare fiori di cui è nota la provenienza e che presentano certificazioni di sostenibilità (come ad esempio Fairtrade). Questi enti di certificazione infatti concedono il loro marchio solo ai prodotti che rispettano i codici di condotta stabiliti dalle associazioni, funzionando come una sorta di 51 certificazione dell’umanità delle condizioni di lavoro lungo tutta la loro filiera. I consumatori sensibili alla questione acquistano più volentieri i prodotti con queste certificazioni, dando quindi ad essi un vantaggio competitivo nel mercato, sebbene il loro costo sia leggermente maggiorato. Le aziende potrebbero quindi ritenere utile aderire ai codici di condotta delle organizzazioni per avere questi vantaggi, migliorando di conseguenza le condizioni di lavoro nelle imprese. Si parla sempre più spesso infatti del consumo critico come una delle leve per agire su contesti così complessi e contraddittori. Altra azione possibile e alla portata di ciascuno di noi è provare a promuovere e sostenere iniziative di sensibilizzazione e advocacy sulle questioni relative all’industria dei fiori. L’esempio in questo senso è stato fornito dall’International Labor Rights Forum, che ha pubblicato un campaign toolkit dal titolo «Giustizia nei fiori», dove si trovano spunti per organizzare eventi di sensibilizzazione nelle scuole ed esempi di lettere già scritte da inviare ai gestori delle grandi catene di supermercati. Altra possibilità è quella di fornire sostegno alle iniziative di cambiamento che vengono dal basso, come quelle promosse da Cetu (Confederation of Ethiopian Trade Union) sindacato etiope che da anni è impegnato ad aiutare i lavoratori sfruttati nelle serre a prendere progressivamente coscienza dei loro diritti e dei rischi che corrono lavorando a contatto con i pesticidi, promuovendo così un cambiamento lento e graduale ma senz’altro duraturo ed efficace.

Proprio provando a sostenere queste iniziative dal basso Iscos Emilia-Romagna e Iscos Marche, istituti di cooperazione allo sviluppo promossi dalle omonime Cisl regionali, per 14 anni hanno investito nella formazione dei quadri sindacali Cetu e hanno promosso formazioni ai sindacalisti nelle imprese in modo da favorire lo sviluppo di una cultura fatta di diritti e tutele anche per coloro che di diritti e tutele non hanno mai sentito parlare. In questo senso la collaborazione sindacale a livello internazionale può rappresentare una possibilità reale di produrre giustizia sociale e promuovere il lavoro dignitoso soprattutto laddove sembra che i confini tra etica e capitale siano ormai molto sfumati.

Sarah Alessandroni

Il DVD del nostro documentario BIANCOfioreNERO è disponibile presso l’ufficio di ISCOS ER a Bologna con offerta libera.

CREDITS

Durata: 30 minuti
Lingua originale: Amarico, inglese
Sottotitoli: italiano
Ricerche e testi: Manuela Melandri / Sarah Alessandroni
Riprese: Elisa Bucchi / Nicola Bogo
Produzione: ISCOS ER, ISCOS Marche, FAI ER, FAI CISL, Regione ER

Elisa e Nicola si avventurano armati della loro telecamera e di una nutrita lista di domande in Liguria

dove incontrano produttori floricoli e visitano il mercato di Sanremo grazie all’aiuto di sindacalisti della CISL

ed esperti del settore floricolo che li aiutano a ricostruire l’articolazione della filiera del fiore reciso

che si spinge ben oltre i confini europei e arriva fino in Africa.

In particolare Etiopia e Kenya risultano essere i principali produttori ed esportatori mondiali

e dopo aver incontrato Fairtrade in Italia e aver capito qualcosa in più sugli standard di certificazione

decidiamo approfondire il discorso andando a trovare direttamente i produttori in Kenia e in Etiopia.