La guerra in Etiopia, la cooperazione e i nostri confini

Nella regione del Tigray, nel nord dell’Etiopia, da più di 200 giorni si combatte una guerra senza confini.

Senza confini territoriali. Le forze armate eritree sono scese in campo a fianco del governo federale invadendo il Tigray e adesso non hanno nessuna intenzione di andarsene. Nei primi mesi dopo lo scoppio della guerra con un effetto a catena si sono intensificate le tensioni tra il governo etiope e quello sudanese, coinvolto nell’annosa vicenda della diga sul Nilo, e interessata dall’arrivo di decine di migliaia di sfollati in fuga dal Tigray. Anche internamente, il protrarsi del conflitto ha lasciato margine di manovra a diversi gruppi armati “terroristici”, espressione di irredentismi locali di varia natura, che hanno barbaramente ucciso centinaia di civili e messo in fuga a migliaia.

Senza confini temporali. Dopo quasi 1 mese dall’inizio degli scontri armati, Addis ha dichiarato concluse con successo le operazioni di law enforcement, ma gli scontri armati sono continuati e continuano in tutta la regione. E’ molto difficile prevedere come e quando gli scontri cesseranno. Il livello di attaccamento alla causa tigrina da parte della popolazione del Tigray è molto forte, frutto di 30 anni di propaganda di governo. Tra effettivi e “attivabili”, ad inizio della guerra il corpo militare tigrino era stimato in 250.000 uomini e donne, che possono contare sul sostegno di una diaspora molto solida.

Senza confini legali. E’ oramai acclarato che le parti in causa si siano macchiate di crimini tremendi nei confronti dei civili per il solo motivo di appartenere all’etnia considerata nemica. In violazione di qualsivoglia principio di diritto internazionale umanitario, secondo uno schema già visto troppe volte nella storia del continente per poter essere accettato dalla comunità internazionale. La quale però, rimane pressochè silente.

Senza confini umanitari. E’ ancora fortemente interdetto l’accesso alle zone di conflitto per le organizzazioni umanitarie e si moltiplicano le notizie di attacchi al personale e alle strutture delle poche presenti. Ultimo in ordine di tempo, poche settimane fa è stato ucciso un operatore della ONG italiana CISP. Secondo stime recenti, quasi 6 milioni di persone si trovano in grave bisogno di assistenza umanitaria; di questi, almeno 2,3 milioni di bambini.

Senza confini alla disumanità. Più di 1 milione gli sfollati interni. Più di 50 mila persone sono riuscite a fuggire in Sudan, prima che il confine venisse militarmente chiuso. Non si hanno notizie del milione di rifugiati un tempo ospitati nei campi profughi nel nord della regione. A Mekelle si allestiscono campi profughi mentre nel resto della regione si continua a combattere. Decine di migliaia di storie drammatiche di soprusi, violenze, uccisioni, torture e stupri che a fatica emergono dal silenzio imposto dal taglio alle comunicazioni e da una informazione controllata.

L’economia regionale è al collasso. Il settore agricolo, fondamentale per la sicurezza alimentare e da cui dipende ancora più dell’80% della popolazione, veniva da 2 anni difficili dovuti ad un’eccezionale invasione di locuste. Inoltre, a causa degli scontri tantissimi contadini sono stati costretti ad abbandonare le proprie terre per cercare rifugio altrove, lasciandole incolte. La quasi totalità delle industrie è stata rasa al suolo dai bombardamenti o saccheggiata. Più di 150.000 lavoratori e lavoratrici hanno perso il lavoro. I sistemi di assistenza alimentare dello stato sono interrotti da mesi. La carestia è in atto. Le persone stanno tornando a morire di fame. E senza un radicale cambio di passo, la situazione è destinata a diventare catastrofica.

In una situazione così complessa e disumana è difficile non chiedersi da che parte stare come attori della cooperazione, non domandarsi quali siano i nostri confini e se abbia senso continuare a dialogare con chi si è macchiato di enormi atrocità.

Dal nostro punto di vista cooperare significa dialogare, lavorare insieme con spirito di apertura ed interesse verso l’altro. Cooperare significa condividere dei valori, degli obiettivi e delle modalità di intervento. Certamente ISCOS Emilia-Romagna non collabora direttamente con i governi in causa in questa guerra, né con apparati direttamente coinvolti nel conflitto, in quanto il nostro partner di lunga data, il CETU, è un’organizzazione sindacale indipendente.

Viene tuttavia spontaneo considerare che la cooperazione internazionale e gli aiuti allo sviluppo in generale costituiscono fonte di legittimazione e consenso per la forza di governo che è in grado di attirarli, negoziarli e riceverli. Al netto della differenza tra aiuti umanitari – in risposta a situazioni di emergenza – e aiuti allo sviluppo – per una riduzione della povertà nel lungo periodo – è evidente che una forza di governo in grado di attrarre risorse finanziarie internazionali destinate a rispondere a bisogni concreti della popolazione, non possa che guadagnarne in termini di visibilità e consenso. Pertanto, continuare a lavorare in un paese con una guerra di fatto ancora in corso potrebbe essere letto come un appoggio implicito al governo e alla linea tenuta dal governo fino a questo momento.

Tuttavia, da un lato bisogna riconoscere che i fondi per l’assistenza umanitaria e l’aiuto allo sviluppo sono oggetto di accordi bi- o multi-laterali che li rendono soggetti a condizionalità che fanno sì che il consenso politico che ne deriva non costituisca mai un incentivo per la forza di governo, al mantenimento di uno stato emergenziale e di necessità nel Paese. Nel dicembre 2020 ad esempio, l’Unione Europea ha bloccato il trasferimento di 90 milioni di € di aiuto allo sviluppo all’Etiopia, chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità in Tigray.

Dall’altro lato, noi crediamo che sostenere l’attivismo del sindacato e della società civile locale, soggetti questi con i quali condividiamo appunto valori, obiettivi e metodologie, per la promozione di società pacifiche, dei diritti umani e di economie inclusive, sostenibili e responsabili sia l’unico gesto di umanità che ci è concesso fare.

I nostri interlocutori sono quelle parti sociali che soffrono maggiormente in tempi di conflitto, di repressione delle libertà, di regime dittatoriale, di emergenza sanitaria o umanitaria. Una società civile fiorente e attiva è sinonimo di pace, di libertà. Sostenerla, significa contrastare ciò che la reprime, come la guerra, ad esempio.

Pensiamo che sia importante, essendo attori di cooperazione, porci queste domande che aprono a volte a dubbi e interrogativi profondi.

E la risposta principale è che continuiamo ad essere convintamente vicini a chi questa guerra non la vuole, ma la soffre. Desideriamo offrire supporto a chi incarna i nostri valori e diventare la voce di chi non ha voce. La voce di un popolo, di tanti popoli, che vogliono la pace. Per noi non esistono vinti o vincitori, non ci sono invasori o ribelli. Ci sono le persone e i loro diritti.

 

Marcello Poli – 15/06/2021